L’introduzione, all’interno dell’ordinamento italiano, di un’apposita disciplina del c.d. smart working (o “lavoro agile”), operata dalla legge 22 maggio 2017, n. 81, ha permesso l’emersione (in palese ritardo rispetto ad altri Paesi europei) di una nuova e moderna concezione delle modalità di esecuzione della prestazione lavorativa, che per molti rappresenta un primo passo verso una vera e propria “de-materializzazione” del “luogo di lavoro”. Come è noto, al lavoratore agile è consentito di svolgere la propria attività anche al di fuori dei locali aziendali, per mezzo dell’utilizzo di strumenti tecnologici, pur rimanendo a tutti gli effetti un dipendente con contratto di lavoro subordinato. Infatti, come detto, non si tratta di una nuova tipologia di contratto di lavoro, bensì di un nuovo modo di esecuzione del rapporto subordinato, che può avere luogo al netto di vincoli di orario e di presenza. I vantaggi dello strumento sono stati a più riprese richiamati in dottrina ed enfatizzati dal legislatore stesso: incremento della competitività e migliore conciliazione dei tempi di vita e di lavoro (c.d. work-life balance).
A ben vedere, ulteriori benefici possono riscontrarsi in un possibile miglioramento della produttività dell’azienda, una diminuzione dei costi generali (relativi agli uffici e alla strumentazione aziendale normalmente messa a disposizione dei dipendenti) e una diminuzione degli episodi di assenteismo. Taluno, in proposito, ha altresì rilevato come il lavoro agile si presti anche a comportare effetti di utilità generale, quale, fra gli altri, la possibile riduzione dell’impatto ambientale (si pensi, a titolo esemplificativo, agli impatti sulla qualità dell’aria dovuti al traffico dell’automobile con cui, normalmente, il lavoratore si recherebbe in azienda). Ciò premesso, nonostante le indubbie opportunità, vi sono vari elementi che impongono al datore di lavoro di adottare diverse cautele, sia nella conclusione degli accordi specifici con i lavoratori che nel corso dello svolgimento del rapporto.
La disciplina offerta dalla legge in questione, infatti, residua di numerosi margini di incertezza e finisce per configurare, di fatto, una sorta di rapporto ibrido tra le caratteristiche del lavoro subordinato (al quale, come detto, afferisce) e del lavoro a carattere autonomo nella sua forma di collaborazione coordinata continuativa. Sussistono, con ciò e in assenza di orientamenti giurisprudenziali rilevanti e consolidati, numerosi dubbi con riferimento agli obblighi del datore di lavoro, ai diritti dei dipendenti, alle modalità di esecuzione della prestazione, all’applicazione o meno di talune norme tradizionalmente riservate alla subordinazione come normalmente intesa. Risulta, quindi, del tutto necessario esaminare, in questa sede, i principali problemi interpretativi che si pongono in merito allo strumento e tentare di offrire delle linee guida di base per il datore nella predisposizione di accorgimenti e nelle scelte da effettuare sulla base del dato legislativo, evitando, con ciò, possibili ed eventuali contenziosi.
Come tutelare il diritto alla disconnessione?
Tra le più delicate operazioni che il datore deve porre in essere nell ’organizzazione della prestazione lavorativa dello smart worker, vi è senz’altro l’adozione di misure che garantiscano allo stesso il diritto alla disconnessione. A ben vedere, infatti, perché il rapporto di lavoro – nonché la sua peculiare modalità di esecuzione – rientri nell’ambito della legittimità, è necessario che i carichi di lavoro siano adeguati e, seppur nella flessibilità dell’orario che la stessa introduzione del lavoro agile in sé comporta, a ritmi sostenibili per il lavoratore.
A differenza del canonico rapporto di subordinazione, in cui la prestazione è resa entro un orario specifico e predeterminato, taluno ha rilevato il rischio che un’eccessiva modernizzazione in senso digitale porti il lavoratore ad essere in ogni momento reperibile ed operativo, con conseguenti pregiudizi alla salute e all’esercizio del diritto di riposo. Molte sono, in questo senso, le possibili patologie psicologiche da sovraccarico che giova scongiurare: da mere situazioni di stress (il c.d. techno-stress) ed eccessiva stanchezza, sino all’esaurimento, alla dipendenza tecnologica e alla sindrome da burnout.
A ciò si aggiungano possibili e ulteriori nocumenti alla propria sfera personale e al rapporto con i familiari, posta la tendenza all’assottigliamento tra il confine lavoro-vita privata. Trattasi di un’eventualità che lo stesso legislatore parrebbe aver preso in considerazione. All’art. 19, comma 1, legge 22 maggio 2017, n. 81 si trova, infatti, che, per mezzo dell’accordo tra datore di lavoro e prestatore, occorre individuare “i tempi di riposo del lavoratore nonché le misure tecniche e organizzative necessarie per assicurare la disconnessione del lavoratore dalle strumentazioni tecnologiche di lavoro”. Appare del tutto evidente come, in considerazione dei possibili rischi e in attesa di chiari orientamenti giurisprudenziali, sia da ritenersi prudente una delimitazione delle tempistiche di esecuzione particolarmente precisa e circostanziata e, ovviamente, rispettosa dei limiti posti dalla legge e dalla contrattazione collettiva in materia di orario di lavoro. Sotto tale profilo, si ritiene sconsigliabile l’adozione di ritmi o orari alternati. In una simile circostanza, invero, parrebbero porsi dubbi in merito all’adeguatezza dell’intervallo temporale intermedio che, in un’eventuale giudizio, potrebbe essere ritenuto insufficiente a garantire un effettivo riposo ponendosi, con ciò, in potenziale contrasto con l’art. 2087 c.c. (“l’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”).
In forza del citato articolo 19, poi, un ruolo fondamentale è svolto dalle misure tecniche che garantiscano la disconnessione. Ciò vale, in particolar modo, a fini probatori, posto che un adeguato sistema informatico che, per esempio, delimiti temporalmente gli accessi del lavoratore si presta senz’altro a dimostrare l’aderenza dell’accordo e, con esso, del rapporto lavorativo alla normativa di cui sopra. Taluno ha, in proposito, individuato nell’automatico spegnimento del server aziendale a dati orari o, in ogni caso, nella predisposizione di un meccanismo di blocco all’accesso specificatamente riferito allo smart worker una possibile soluzione, purché ciò non si presti ad arrecare possibili pregiudizi all’organizzazione aziendale. Ad ogni modo, a prescindere dagli accorgimenti specificatamente individuati, il dipendente deve poter contare su un non utilizzo della strumentazione (in determinate fasce orarie), senza che a ciò conseguano effetti per la prosecuzione del rapporto di lavoro ovvero vengano meno i vantaggi del lavoro agile.
Smart working e sicurezza sul lavoro
Il datore di lavoro può ritenersi responsabile per gli eventuali danni patiti dal dipendente al di fuori del contesto aziendale e in regime di lavoro agile? Tale interrogativo rappresenta, senz’altro, una questione cardine. Ci si chiede, in altri termini, se per le prestazioni rese all’esterno dei locali dell’impresa il titolare debba mettere in atto le misure e adempiere i doveri di valutazione del rischio e di natura formativa prescritti dal D.Lgs. 9 aprile 2008, n. 81 (Testo unico sulla salute e sicurezza sul lavoro). A chiarire taluni dubbi interpretativi è intervenuta la Suprema Corte di cassazione (sezione penale) che, con sentenza n. 45808/2017, ha offerto una nuova definizione di “luogo di lavoro”.
Stante la pronuncia citata, parrebbe doveroso ritenere il datore di lavoro onerato dell’obbligo di compiere le predette valutazioni e, soprattutto, a rispondere delle violazioni sulla sicurezza ogniqualvolta ciò avvenga in un luogo preventivamente indicato nell’accordo sul lavoro agile ovvero allorquando detta pattuizione nulla dica sugli spazi in cui rendere la prestazione. Per scongiurare eventuali contenziosi, quindi, risulta consigliabile individuare e predeterminare, al momento dell’accordo, le sedi esterne in cui allo smart worker sia concesso operare ed elaborare la preliminare valutazione dei rischi di cui all’art. 28, comma 1, D.Lgs. n. 81/2008, contenente altresì le specifiche di cui al comma 2 (relazione, indicazione delle misure di prevenzione, dei nominativi dei responsabili ecc.), prima dell’inizio dello svolgimento del rapporto.
A ciò si aggiunga, peraltro, il dovere di formare adeguatamente il lavoratore ai sensi dell’art 37 del citato Decreto (“il datore di lavoro assicura che ciascun lavoratore riceva una formazione sufficiente ed adeguata in materia di salute e sicurezza … con particolare riferimento a … concetti di rischio, danno, prevenzione, protezione… rischi riferiti alle mansioni e ai possibili danni”). Infatti, sulla base della sentenza della Suprema Corte, detti obblighi gravano sul datore di lavoro “ovunque siano situati i dipendenti”. Il giudice di legittimità ha, di fatto, operato un’interpretazione particolarmente estensiva del concetto di “luogo di lavoro”, statuendo come ogni tipologia di spazio possa “assumere la qualità di luogo di lavoro”, purché nell’ambito di tale spazio “sia ospitato almeno un posto di lavoro o esso sia accessibile al lavoratore nell’ambito del proprio lavoro” (tale principio trova riscontro anche nelle precedenti decisioni della Cassazione: sentenza n. 40721/2015, n. 2343/2013, nonché n. 28780/2011). A ben vedere, infatti, la concezione particolarmente restrittiva di “luogo di lavoro” operata dal richiamato D.Lgs. n. 81/2008 all’art. 62 (a mente del quale “si intendono … i luoghi destinati ad ospitare posti di lavoro, ubicati all’interno dell’azienda o dell’unità produttiva, nonché ogni altro luogo di pertinenza dell’azienda o dell’unità produttiva accessibile al lavoratore nell’ambito del proprio lavoro” nonché “i campi, i boschi e altri terreni facenti parte di un’azienda agricola o forestale”) dovrebbe interpretarsi limitatamente alle disposizioni di cui al Titolo II e, quindi, soltanto per taluni degli obblighi di salute e sicurezza prescritti dal Decreto.
Controlli a distanza
Un ulteriore problema applicativo, cui il datore è chiamato a prestare particolare attenzione, riguarda i limiti posti dalla legge e dalla contrattazione collettiva in materia di controlli a distanza sull’attività lavorativa che si pone, peraltro, con una certa pregnanza anche in tema di smart working. Come è noto, seppur in seguito alle modifiche di cui al D.Lgs. n. 151/2015 (c.d. Jobs Act), l’art. 4, legge n. 300/1970 pone un divieto al datore di servirsi di strumenti al solo fine di controllare l’attività dei dipendenti e prescrive il raggiungimento di un accordo collettivo o di una preventiva autorizzazione della sede territoriale dell’Ispettorato nazionale del lavoro per poter utilizzare impianti audiovisivi o strumenti dai quale derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell’attività lavorativa.
Tuttavia, la stessa disposizione, esonera il datore dall’espletamento di tale procedura ove detti mezzi siano “utilizzati dal lavoratore per rendere la prestazione lavorativa”. Ebbene, se non paiono esserci dubbi sulla natura dei dispositivi informatici di cui si serve lo smart worker e, quindi, sul relativo utilizzo ai fini dell’esecuzione della prestazione, va detto che, data la peculiarità del rapporto di lavoro in oggetto, l’esercizio del potere di controllo dell’attività sia da ritenersi, non solo legittimo, quanto più opportuno. L’impossibilità di verifiche in presenza sull’effettivo svolgimento delle mansioni e, a titolo esemplificativo, sul rispetto dell’orario di lavoro concordato, rende, infatti, indispensabile procedere in tal senso. Si ritiene che, in un’opera di bilanciamento di interessi contrapposti, le future pronunce giurisprudenziali debbano tener conto della specialità del legame, compensando le garanzie legali offerte al lavoratore con i vantaggi dallo stesso conseguiti nella miglior conciliazione vita-lavoro. Tale opera di controllo è, a maggior ragione, necessaria anche a tutela del dipendente medesimo, posto che, oltre a poter rilevare potenziali inadempimenti, il titolare deve garantire il richiamato diritto alla disconnessione, verificando che la prestazione non si protragga oltre l’orario pattuito.
In ogni caso, al fine di limitare possibili ipotesi di contenzioso, risulta utile prevedere, all’interno dell’accordo individuale sullo smart working, le modalità di esercizio del potere di controllo del datore (la cui indicazione è obbligatoria ai sensi dell’art. 21, legge n. 81/2017) in maniera quanto mai dettagliata e compiuta. Peraltro, come nel caso del canonico rapporto di lavoro subordinato, ove al lavoratore non sia data “adeguata informazione delle modalità d’uso degli strumenti e dei controlli” (art. 4, comma 3, legge n. 300/1970), le relative risultanze non potranno essere utilizzate a fini disciplinari.
Smart working e privacy
A complicare ulteriormente il quadro, si aggiungono le nuove disposizioni europee in materia di privacy, di cui al Regolamento Ue 2016/679 (il c.d. GDPR). È indubbio che gli effetti della nuova normativa – anche in considerazione delle ingenti sanzioni poste a carico delle aziende – riguardino da vicino anche il lavoro agile. Per mezzo del dispositivo tecnologico utilizzato al di fuori dei locali dell’impresa e, generalmente, del relativo collegamento con il server aziendale, il dipendente tratta – e ha accesso – a vari e diversificati dati personali (che, risulta utile specificare, dovrebbero essere limitati alle specifiche mansioni dallo stesso svolte, in forza del “principio di minimizzazione dei dati” ex art. 5, Reg. 2016/679).
Occorre, con ciò, che il datore di lavoro, oltre ad informare compiutamente il lavoratore sui limiti posti dal Regolamento e dalla normativa interna, si operi per predisporre sistemi di cyber security all’avanguardia, affinché possa evitarsi una relativa dispersione e accesso illegittimo di terzi. Garantire la sicurezza informatica è, infatti, uno tra i corollari della nuova normativa. Per il principio di accountability, il datore deve, peraltro, essere in grado di dimostrare l’adeguatezza delle misure adottate. In questo senso, possono indicarsi taluni utili accorgimenti:
• garantire la condivisione di files e contenuti di vario tipo tra i lavoratori interessati tramite clouds particolarmente evoluti in termini di sicurezza;
• associare alle chiavi di sicurezza per l’accesso ai dati, elementi ulteriori, quali apposite cards o token;
• assicurarsi che il dispositivo utilizzato dallo smart worker sia dotato di un efficace software antivirus;
• effettuare periodicamente – e costantemente – il back up delle informazioni.
Va detto, poi, che oltre a garantire adeguati sistemi di protezione per i dati personali di terzi, con cui possa entrare in contatto lo smart worker, il datore è altresì chiamato a garantire la riservatezza e a proteggere i dati del lavoratore stesso. In tal senso, in ragione dell’utilizzo di strumenti tecnologici, oltre alla preventiva acquisizione del consenso del dipendente ai fini del trattamento delle informazioni che lo riguardano, parrebbe opportuna l’adozione di una policy aziendale, di cui lo stesso possa venire a conoscenza, che determini le modalità del corretto utilizzo dei mezzi informatici. Il lavoratore dovrebbe essere conscio sia dei rischi di dispersione e di condivisione delle proprie informazioni, sia dell’esistenza o meno di siti la cui navigazione può comportare rischi maggiori. Al riguardo, taluno ha ritenuto utile predisporre, in favore dello smart worker, un elenco di siti web in cui vietare o sconsigliare l’accesso.
Potere direttivo e disciplinare
Uno degli aspetti più innovativi disciplinati dal D.Lgs. n. 81/2017 in materia di lavoro agile è rappresentato dalla possibilità di concordare, all’interno dell’accordo per l’esecuzione della prestazione, anche le modalità di esercizio del potere direttivo da parte del titolare (art. 19 del citato Decreto). Può dirsi, con ciò, come il datore sia privato della facoltà di stabilire unilateralmente dette modalità, generalmente riconosciuta nell’ambito del canonico rapporto di lavoro subordinato. Ciò vale, altresì, per l’esercizio del potere disciplinare.
Gli interpreti, nella valutazione sulla portata della norma, hanno rilevato l’insufficienza della disposizione che prevede l’obbligo della mera affissione preventiva del codice disciplinare ovvero del regolamento aziendale in un luogo accessibile a tutti i lavoratori, come richiesto dallo Statuto dei lavoratori (legge n. 300/1970), a vantaggio di una necessaria indicazione delle relative disposizioni all’interno dell’accordo individuale stipulato con lo smart worker. Seppur nel rispetto delle procedure di cui all’art. 7 dello Statuto, il legislatore parrebbe aver inteso attribuire un inedito potere di contrattazione al lavoratore in un ambito normalmente sottrattogli.
Quanto sopra parrebbe giustificarsi sulla base dei richiamati pericoli che – al netto dei vantaggi una simile modalità di esecuzione porta con sé. Occorre, in tal senso, specificare come tale assunto trovi applicazione esclusivamente nell’ambito dello svolgimento delle mansioni affidate al di fuori del contesto aziendale, posto che, per le ore svolte all’interno dei locali, resta salva l’affissione del codice disciplinare. In ogni caso, il datore sarà chiamato a predisporre e a contrattare un accordo individuale con il lavoratore – ancora una volta – particolarmente dettagliato, pena l’impossibilità di infliggere sanzioni ovvero il rischio di pronunce di illegittimità dei provvedimenti comminati.
Giova, in particolare, individuare – e predeterminare – con estrema precisione qualsivoglia tipologia di condotta cui far discendere l’irrogazione di sanzioni. Si ritiene altresì opportuno – seppur nel silenzio della legge – prevedere esplicitamente all’interno del patto le specifiche sanzioni stabilite, che dovranno rispettare la contrattazione collettiva.
La retribuzione
Giova, da ultimo, affrontare il tema della retribuzione del lavoratore agile. Al riguardo, dalla lettura dell’art. 20 comma 1, D.Lgs. n. 81/2017 non parrebbero emergere particolari questioni interpretative: lo smart worker non deve vedersi ridurre l’importo della retribuzione in ragione della peculiare modalità di esecuzione della prestazione. Infatti, a norma della disposizione citata, “il lavoratore che svolge la prestazione in modalità di lavoro agile ha diritto ad un trattamento economico e normativo” non inferiore a quello complessivamente applicato “nei confronti dei lavoratori che svolgono le medesime mansioni esclusivamente all’interno dell’azienda”.
Ciò premesso, può dirsi come il datore possa sì prevedere un trattamento economico diversificato, purché tale differenziazione trovi ragione nella diversa tipologia delle mansioni affidate e non, come detto, nei modi di svolgimento delle stesse. Particolari problemi possono, invero, sorgere con riferimento alla retribuzione – e alla quantificazione – delle ore di lavoro straordinario. Se non v’è dubbio di ritenere che – astrattamente – debbano trovare applicazione anche per lo smart worker le maggiorazioni normalmente previste dalla contrattazione collettiva, al fine di non ledere il richiamato principio di analogia del trattamento retributivo, il superamento del concetto di orario di lavoro ordinario operato dal legislatore rende, invero, particolarmente difficoltoso sancire un vero e proprio confine tra le ore normalmente prestate e le ore straordinarie. Per non rendersi protagonista di eventuali abusi, quindi, il datore dovrà, a maggior ragione, prestare attenzione all’effettivo rispetto del citato diritto di disconnessione.
Peraltro, si ritiene che il concetto di parità della retribuzione debba estendersi non soltanto al trattamento retributivo in senso stretto, ma altresì alle voci addizionali con finalità di incentivo alla produzione, quale la possibile erogazione dei c.d. fringe benefits eventualmente prevista, in attuazione di piani di welfare aziendale, per la generalità dei dipendenti.