Dalla recente sentenza n. 5513 del 8 marzo 2018 della Suprema Corte di Cassazione emergono rilievi interessanti in merito al tema dell’applicabilità delle procedure di mobilità e cassa integrazione previste dall’ordinamento alla specialità del rapporto lavorativo dirigenziale. Occorre, a tal proposito, richiamare il quadro normativo di riferimento, nonché esaminare i recenti interventi legislativi in materia.
In particolare, va affermato come le procedure di licenziamento collettivo in generale e, con esse, la possibilità di ricorrere all’utilizzo degli ammortizzatori sociali, quali, a titolo esemplificativo, la cassa integrazione, la mobilità, gli accordi di demansionamento, i contratti di solidarietà (con riferimento ad imprese con più di quindici dipendenti), siano state disciplinate, in primo luogo, dalla Legge 23 luglio 1991, n. 223 (recante “Norme in materia di cassa integrazione, mobilità, trattamenti di disoccupazione”). In forza di tale intervento e, nello specifico, del combinato disposto dell’art 4 comma 9 e dell’art 24, che ammette alla fruizione dei predetti benefici “gli impiegati, gli operai e i quadri”, risultavano esclusi, in ragione della peculiarità del relativo rapporto, i dirigenti. La Corte di Cassazione aveva, peraltro, a più riprese confermato la tassatività dell’elencazione contenuta nella norma e, con ciò, l’inapplicabilità delle misure a detti soggetti (si legga, da ultimo, Cassazione, sentenza n. 9796 del 2015). Tuttavia, al fine di ravvicinare e uniformare le legislazioni degli Stati membri in tema di licenziamento collettivo il Consiglio dell’Unione europea aveva provveduto all’emanazione della Direttiva 98/59/CE, all’interno della quale era riscontrabile una nuova e ampia nozione di lavoratore europeo (comprendente, quindi, anche la figura del manager). Al mancato recepimento, da parte dello Stato italiano, delle prescrizioni della fonte europea era, peraltro, conseguita una condanna della Corte di Giustizia dell’Unione Europea (13 febbraio 2014, causa c-596/12). Invero, la persistenza di una disciplina differenziata, penalizzante per i dirigenti, avrebbe, a dire del giudice europeo, rappresentato una violazione degli obblighi previsti dalla Direttiva.
Stante tale assetto, il Legislatore ha approvato la Legge n. 61 del 30 ottobre 2014, con la quale – finalmente – ha proceduto all’adempimento delle prescrizioni comunitarie, estendendo la tutela di cui sopra all’ipotesi del manager. Da una lettura dell’art. 16, infatti, si evince l’addizione all’art. 24 della L. 223/1991 della dicitura “…compresi i dirigenti”, con l’ulteriore previsione di un peculiare e apposito regime sanzionatorio.
Ebbene, nel caso oggetto della pronuncia in commento, un lavoratore con qualifica dirigenziale ricorreva avverso le decisioni dei giudici di prime cure che avevano affermato la legittimità del licenziamento comminatogli nell’anno 2009. Il ricorrente, infatti, si doleva del mancato rispetto, da parte del datore, delle procedure di licenziamento collettivo previste dalla L. 223/1991. Sulla base dell’intervenuta condanna da parte della Corte di Giustizia Europea nei confronti dello Stato e della vigenza, alla data del licenziamento, della Direttiva 98/59/CE, a dire del lavoratore avrebbe dovuto ritenersi operativa l’estensione delle tutele sopra richiamate anche al rapporto dirigenziale.
La Cassazione, investita della questione, ha ritenuto di non potersi discostare dal dato letterale della disposizione in vigore al momento del recesso, definito quale “ostacolo insuperabile” e, in quanto tale, inidoneo a consentire un’estensione dell’ambito di applicazione in via puramente interpretativa. Allo stesso tempo, il Supremo Giudice ha negato di poter procedere ad una disapplicazione della normativa italiana, seppur la stessa fosse in palese contrasto con la Direttiva di cui sopra, posto che, sulla base del sistema delle fonti dell’ordinamento europeo e dei numerosi precedenti giurisprudenziali, qualsivoglia efficacia diretta dello strumento della direttiva nei rapporti tra soggetti privati (in assenza di un intervento legislativo interno) secondo la Suprema Corte è da ritenersi esclusa (si leggano, in questo senso, anche Cassazione, sentenza n. 22440 del 2009, sentenza n. 23937 del 2006, sentenza n. 17004 del 2006, nonché sentenza n. 3914 del 2002). E, infatti, anche la stessa Corte di Giustizia dell’Unione europea aveva da tempo perentoriamente statuito che “la direttiva vincola solo lo Stato cui è diretta e dunque non può di per sé imporre obblighi a carico dei singoli individui in assenza di misure di attuazione” (causa C-152/84).
In considerazione di tali premesse, unitamente all’osservazione circa l’irretroattività della L. 61/2014 e quindi al rilievo dell’inapplicabilità della stessa alla controversia in oggetto, è inevitabilmente conseguito il rigetto del ricorso.