Risulta oramai del tutto usuale, nella generalità dei settori d’impresa, la circostanza per la quale il datore di lavoro, in particolar modo in contesti aziendali di notevoli dimensioni, provveda ad integrare la normale retribuzione del proprio dipendente per mezzo di erogazioni di varia natura. Tale pratica coincide, nella maggioranza dei casi, con l’attivazione di veri e propri c.d. piani di welfare aziendale con i quali, per l’appunto, offrire ai lavoratori una serie di benefici e prestazioni, nonché iniziative ad altro titolo, che concorrano a soddisfarne talune esigenze. In particolare, con il c.d. welfare aziendale, al netto dei vantaggi di natura fiscale che si tenterà di seguito di richiamare, l’impresa mira ad incrementare la situazione di benessere e migliorare la qualità della vita del lavoratore, nonché della relativa famiglia.
Questi vengono generalmente attuati per soddisfarne talune esigenze di carattere extra-lavorativo e di aumentarne – in date circostanze in maniera significativa – il potere d’acquisto e possono vedere il proprio avvio attraverso un’iniziativa unilaterale del datore, ovvero in seguito al raggiungimento di un accordo con le rappresentanze sindacali. Trattasi, per di più, di vantaggi di tipo bilaterale, posto che è indubbio il conseguimento di un’utilità rilevante anche in capo al datore stesso. Invero, i piani contribuiscono alla realizzazione, in maniera efficace, di obiettivi legati alla produttività, competitività e sostenibilità dell’azienda.
Per mezzo di dette politiche, è infatti possibile da un lato attrarre risorse umane con standard qualitativi di rilievo, dall’altro migliorare il clima del lavoro, nonché delle singole relazioni che vengono a costituirsi internamente all’impresa, giungendo ad una maggior motivazione di ogni dipendente nel conseguimento dei risultati aziendali e al potenziale sviluppo di un vero e proprio senso di appartenenza. In questo senso, la modalità più consueta di attuazione dei piani di welfare consiste nell’erogazione dei c.d. fringe benefits, intendendosi con tale espressione i vari e diversificati benefici (tradotto letteralmente “benefici marginali”) che vengano corrisposti al dipendente ad integrazione del relativo compenso. Occorre a tal proposito, in virtù della portata del fenomeno nonché dell’espansione dello stesso, operare una ricognizione dei principi, di natura giuslavoristica e tributaria, atti a disciplinarne i vari aspetti, nonché procedere ad una valutazione più specifica di taluni tra i benefits di maggior fruizione.
Fringe benefits e natura retributiva
La principale problematica che, negli anni, gli interpreti hanno tentato di approfondire riguarda la configurazione di una vera e propria natura retributiva da attribuirsi ai fringe benefits. Invero, da tale qualificazione discendono conseguenze rilevanti, in particolar modo con riferimento agli eventuali riflessi sugli altri istituti retributivi, quali la tredicesima mensilità, il trattamento di fine rapporto, nonché l’indennità sostitutiva del preavviso. Orbene, occorre preliminarmente osservare come la qualificazione in termini di “retribuzione” possa in primo luogo operarsi da parte della contrattazione collettiva ovvero individuale, per mezzo delle quali l’oggetto di pattuizione può essere rappresentato sia dagli specifici benefici che si intendano garantire sia dalla disciplina cui assoggettarli. Al riguardo, in forza del Protocollo d’intesa tra Governo e parti sociali del 23 luglio 1993, per mezzo dei contratti collettivi può attribuirsi o meno ai benefits rilevanza retributiva.
In ogni caso, sono rinvenibili principi elaborati di volta in volta dalla giurisprudenza che permettono di prescindere, nel caso concreto, dalla qualificazione attribuita al beneficio dalle parti e di attribuire, a taluni istituti predeterminati, la predetta natura. A titolo esemplificativo, si cita la sentenza n. 4197/1995, con la quale la Suprema Corte di cassazione ha provveduto ad attribuire, senza dubbio alcuno, natura retributiva all’attribuzione di un alloggio al dipendente. In ogni caso, la risposta al quesito, in termini generali, non può che individuarsi all’interno di espresse disposizioni legislative. Infatti, in forza dell’art. 2099, comma 3 del Codice civile “il prestatore di lavoro può essere retribuito in tutto o in parte con partecipazione agli utili o ai prodotti, con provvigione o con prestazioni in natura”.
Non v ’è dubbio, quindi, che la fattispecie possa rientrare nella nozione di “prestazioni in natura” di matrice civilistica che comprende l’erogazione di beni e servizi in forma non monetaria. In tal senso, i fringe benefits costituiscono una sorta di “retribuzione marginale”, ossia elementi remunerativi complementari alla retribuzione principale normalmente pattuita dalle parti e che contribuiscono ad integrarla. Da ciò discende, in particolare, l’obbligatorietà della relativa corresponsione da parte del datore. Per di più, sotto il profilo squisitamente fiscale, giova rilevare come all’art. 51, Testo Unico delle Imposte sui Redditi (D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917), sia rinvenibile una determinazione del reddito di lavoro dipendente che comprende “tutte le somme e i valori in genere, a qualunque titolo percepiti nel periodo d’imposta, anche sotto forma di erogazioni liberali, in relazione al rapporto di lavoro”. Trattasi del noto principio, di matrice tributaria, di omnicomprensività (o unitarietà) della retribuzione, teso a ricomprendervi tutti i valori percepiti dal dipendente nel corso del rapporto lavorativo. Va altresì osservato, come invero rilevato da parte della dottrina, che il comma 182 dell’art. 1, legge 28 dicembre 2015, n. 208 (legge di stabilità 2016) preveda esplicitamente la possibilità di provvedere ad una conversione del c.d. “premio di risultato” o “premio di produttività” in beni o servizi. A tal proposito, posto che non suscita perplessità alcuna l’affermazione della natura retributiva di detto premio (di produttività o di risultato), può pacificamente desumersi come tale natura, una volta avvenuta la predetta conversione, debba intendersi sussistente anche per il beneficio in natura consistente in beni o servizi. In ogni caso, affinché possa operarsi una corretta valutazione dell’incidenza sul calcolo degli altri istituti retributivi indiretti o differiti (es. Tfr), nonché determinare l’esatta base imponibile da sottoporre al calcolo dei contributi previdenziali dovuti, risultano necessarie considerazioni differenti da effettuarsi caso per caso. Vengono, a tal riguardo, in rilievo elementi quali le modalità di utilizzo del benefit e le finalità della relativa concessione. Infatti, la natura retributiva – e il relativo assoggettamento alla predetta disciplina – è da considerarsi esclusa ove gli eventuali beni o servizi offerti al lavoratore non ne realizzino un effettivo arricchimento, poiché legati ad un interesse esclusivo o prevalente del datore di lavoro.
In tali circostanze il vantaggio che consegue il lavoratore viene assorbito dal vantaggio dell’impresa (si pensi al datore di lavoro che, per permettere al dipendente di guidare l’autovettura nello svolgimento delle proprie mansioni a favore dell’azienda provveda ad iscriverlo ad un apposito corso di guida per il conseguimento della relativa patente). Allo stesso modo, nello specifico caso di utilizzo di beni, se questi sia finalizzato all’interesse esclusivo dell’azienda, dovendosi ritenere gli stessi dei veri e propri strumenti di lavoro e, come tali, al di fuori della retribuzione imponibile. Ove, invece, l’utilizzo sia promiscuo, occorre operare specifiche distinzioni via via individuate dal Tuir.
Quanto al valore da attribuirsi a detti beni, ai fini fiscali, il legislatore, all’art. 9 del Tuir ha stabilito, quale importo di riferimento, il valore normale del bene, ossia “il prezzo o corrispettivo mediamente praticato per i beni e i servizi della stessa specie o similari”, sottraendo, ai fini della base imponibile, eventuali somme corrisposte o trattenute al dipendente per quel bene o servizio. Va, in ogni caso, sottolineato come, ai sensi dello stesso Tuir (art. 51, comma 3), si escluda il concorso nella formazione del reddito del lavoratore di tutti i benefits erogati se globalmente inferiori, nel periodo d’imposta, a euro 258,23. Resta salvo che, in caso di superamento di detta soglia, il valore del bene deve considerarsi interamente imponibile.
Natura retributiva e irriducibilità della retribuzione
Dal punto di vista prettamente giuslavoristico alla qualificazione dei fringe benefits come componenti in natura della retribuzione conseguono ricadute sul noto principio di irriducibilità della retribuzione. Orbene, ai sensi dell’art. 2103, comma 1, Codice civile, come modificato dalla legge n. 300/1970, ove il lavoratore venga adibito a mansioni diverse da quelle originarie, questi non può vedersi, per tale ragione, ridurre in alcun modo la retribuzione. Ebbene, tale prescrizione incide anche sui fringe benefits?
La giurisprudenza di legittimità ha in proposito distinto, all’interno del concetto di retribuzione, quella “correlata al patrimonio professionale ed alla specializzazione tecnica del lavoratore” da quella “inerente a particolari e contingenti modalità di svolgimento della prestazione lavorativa”, considerando “irriducibile” esclusivamente la prima. Se non crea, al riguardo, particolari problemi interpretativi l’ipotesi in cui i fringe benefits vengano concessi nell’esclusivo interesse del lavoratore e, quindi, non strettamente legati alle mansioni dallo stesso ricoperte per esigenze aziendali, in quanto non v’è dubbio che gli stessi siano coperti dalla garanzia dell’irriducibilità, lo stesso non può dirsi per i benefits di uso promiscuo. Invero, in tale circostanza, occorre valutare, a dire della prevalente dottrina, la preponderanza dell’interesse aziendale ovvero del lavoratore, posto che nel primo caso si ritiene in ogni caso sussistente un’esigenza produttiva che lega, seppur non integralmente, il bene alla mansione e con ciò rendendolo revocabile. Ove, per converso, sia preminente l’interesse in capo al lavoratore e la relativa utilizzabilità nel tempo libero, appare del tutto ragionevole ritenere che l’erogazione del bene o servizio costituisca, in modo pieno, parte della retribuzione irriducibile.
Tali dubbi devono, in ogni caso, considerarsi sanati in caso di esplicita pattuizione delle parti che, anziché limitarsi a determinare le condizioni di utilizzo dei beni, ne preveda, più nel dettaglio, anche le eventuali possibilità di revoca.
I mezzi di trasporto
Passando all’esame dei singoli benefits che, generalmente, vengono previsti all’interno dei piani di welfare aziendale, una posizione di rilievo assumono i mezzi di trasporto che possono, a vario titolo, essere destinati al dipendente (intendendosi esclusivamente i mezzi definiti dal Codice della strada: autoveicoli, autocaravan, motocicli e ciclomotori). Infatti, la concessione di autovetture di proprietà aziendale in uso al lavoratore rappresenta una delle forme di retribuzione in natura più frequenti.
La Cassazione, sul punto, è intervenuta più volte a chiarirne la natura retributiva. In particolare, il Supremo Giudice ha affermato come il valore dell’uso dell’autovettura concessa al prestatore sia un beneficio in natura di tipo retributivo “se pattiziamente inserito nella struttura sinallagmatica del contratto di lavoro”, dovendosi, al contrario, escludere quanto sopra ogniqualvolta il dipendente versi in favore del datore un corrispettivo e, cioè, utilizzandolo nell’ambito di un vero e proprio contratto di locazione. In primo luogo, in virtù dei rilievi precedentemente richiamati, va chiarito come il veicolo dato in uso al dipendente al solo fine dello svolgimento delle mansioni e, quindi, ad esclusivo uso aziendale (circostanza assai usuale) non determini, in alcun modo un fringe benefit tassabile. Tale veicolo, nell’ipotesi considerata, rappresenta un vero e proprio strumento aziendale, necessario allo svolgimento dell’attività lavorativa e, come tale, i relativi costi (es. di manutenzione) risultano interamente deducibili. È il caso, a titolo meramente esemplificativo, del camion in una società di traslochi, ovvero dell’autovettura per i tassisti. Ove, diversamente, il veicolo sia offerto per un uso esclusivamente personale del prestatore, il fringe benefit che se ne determina rappresenta a pieno titolo un compenso in natura tassabile.
A tal proposito, si applica il predetto criterio del valore normale del bene, basandosi sui prezzi praticati sul mercato per veicoli simili. L’intero costo risulterà, poi, deducibile interamente, in quanto computato tra le spese per prestazioni di lavoro. Nell’ipotesi – invero più frequente – in cui l’uso del veicolo sia promiscuo, ossia, come detto, l’attribuzione al soggetto per utilizzo sia personale che lavorativo, la deducibilità da parte del datore di lavoro è limitata, in forza di disposizione legislativa, al 70% (art. 164, Tuir). Con riferimento al dipendente, si determina, sulla base dell’art. 51, comma 4, Tuir, un fringe benefit commisurato specificatamente – e convenzionalmente – nel “30 per cento dell’importo corrispondente ad una percorrenza convenzionale di 15 mila chilometri calcolato sulla base del costo chilometrico di esercizio desumibile dalle tabelle nazionali” dell’Aci, cui andranno detratte le somme allo stesso trattenute. Il valore, così determinato, può essere attribuito al dipendente con specifica indicazioni in busta paga o a mezzo fattura e sarà integralmente tassato.
Non assumono, con ciò, alcun rilievo i costi effettivi di utilizzo e di percorrenza che il lavoratore è chiamato a sostenere concretamente. Giova sottolineare come, ove il lavoratore utilizzi detto mezzo di trasporto per percorrere il tragitto casa-lavoro, ciò vada, in ogni caso, ricondotto ad un uso esclusivamente personale del bene.
L’alloggio
Altra tipologia di fringe benefit in significativa espansione è rappresentata dall’alloggio dato in uso al dipendente. Sempre più spesso, infatti, le imprese provvedono alla stipula di contratti di locazione su determinate abitazioni al fine di concederle successivamente ai propri lavoratori e alle relative famiglie. Ai fini della valutazione del regime applicabile, occorre, in primo luogo, valutare la tipologia di utilizzo dell’immobile. Ebbene, in taluni e infrequenti casi il beneficio è strettamente connesso allo svolgimento dell’attività lavorativa (si pensi al portierato) e, in tale circostanza, suole ritenersi sussistente un obbligo di dimora del dipendente. Ad ogni modo, il beneficio può avere luogo per mezzo di contratti di locazione tra datore e prestatore, ovvero in uso o in comodato.
Indipendentemente dalla fattispecie contrattuale, trattasi di un benefit e, come tale, costituisce anch’esso una componente in natura della retribuzione. In questo senso, la Suprema Corte è più volte intervenuta a chiarire quanto sopra, prescrivendo altresì la necessaria sottoposizione agli oneri fiscali del beneficio a prescindere dalla qualificazione operata dalle parti (si legga Cassazione, sentenza n. 4197/1995, nonché Cassazione sentenza n. 17013/2006). Ne consegue che la natura di fringe benefit dell’alloggio possa ritenersi sussistente per espressa volontà delle parti, ma anche di fatto. Quanto al trattamento fiscale, la base imponibile varia, anche in questo caso, sulla base dell’utilizzo predetto del bene ed è, ancora una volta, disciplinata dal citato art. 51 del Tuir. Invero, ove l’unità immobiliare sia destinata ad essere strettamente strumentale alla prestazione lavorativa, con obbligo di dimora, si determina una base imponibile pari al 30% della rendita catastale dell’immobile, cui aggiungere le spese allo stesso inerenti.
Nel caso in cui il dipendente provveda personalmente al pagamento di talune somme a vario titolo ovvero le stesse vengano trattenute dal datore, queste possono essere sottratte dalla base imponibile. Il valore convenzionale da sottoporre agli oneri fiscali e contributivi varia, invece, ove assegnato per finalità non legate all’esecuzione della prestazione. Infatti, in tale circostanza occorre calcolare la differenza tra la rendita catastale (con l’aggiunta delle spese sostenute) e quanto versato dal dipendente per la concessione dell’immobile (es. canone locazione).
Le stock options
Le c.d. stock options, intendendosi con tale espressione quella particolare forma di distribuzione di azioni ai dipendenti dell’impresa, rientrano anch’esse nei possibili piani predisposti dal datore di lavoro per incrementare la produttività. In particolare, per mezzo delle stesse, il datore può contare su un diretto coinvolgimento, quand’anche simbolico, del lavoratore che, con la relativa sottoscrizione, è incentivato ad una maggior partecipazione all’interesse dell’azienda. In altri termini, le stock options risultano lo strumento più utilizzato al fine di una vera e propria fidelizzazione del dipendente.
Normalmente, il datore provvede alla predisposizione di un piano che preveda la riserva di un numero di azioni ai propri dipendenti ovvero ad una categoria degli stessi, i quali avranno la possibilità di esercitare la propria opzione d’acquisto, in una data scadenza, ad un prezzo prestabilito e, generalmente, significativamente inferiore al prezzo di mercato.
Dal punto di vista legislativo, posto che non v’è dubbio circa la relativa natura retributiva, le stock options parrebbero inserirsi nell’ambito del terzo comma dell’art. 2099 c.c., ove prevede che tra le forme retributive a disposizione del datore rientri la distribuzione di utili. Per di più, si nota come all’art. 2349, con riferimento a tale distribuzione, il legislatore abbia attribuito all’assemblea straordinaria delle Spa il potere di deliberare “l’assegnazione di utili ai prestatori di lavoro dipendenti delle società o di società controllate mediante l’emissione, per un ammontare corrispondente agli utili stessi, di speciali categorie di azioni da assegnare individualmente ai prestatori di lavoro, con norme particolari riguardo alla forma, al modo di trasferimento ed ai diritti spettanti agli azionisti”.
Quanto alla disciplina del diritto di opzione spettante a tali prestatori si fa riferimento al disposto ex art. 2441 c.c. Quindi, in assenza di una definizione legislativa espressa, le stock options non possono in ogni caso ritenersi estranee alla disciplina civilistica. Occorre rilevare come, per mezzo del recente D.L. n. 112/2008, convertito in legge n. 133/2008, il plusvalore realizzato dal dipendente costituisca interamente base imponibile, eccezion fatta, a mente della lettera g), comma 2 dell’art. 51 Tuir, per la circostanza in cui le azioni “offerte alla generalità dei dipendenti”, abbiano “un valore complessivamente non superiore ad € 2.065,83 per ciascun periodo di imposta” e “non siano riacquistate dalla società emittente o dal datore di lavoro o comunque cedute prima che siano trascorsi almeno tre anni dalla assegnazione”. Stanti tali condizioni, infatti, le stock options vengono escluse dal reddito da lavoro dipendente.
Altre tipologie di fringe benefits
A ben vedere, il quadro delle tipologie di benefit cui può darsi luogo in favore dei dipendenti dell’azienda risulta vario e diversificato. Giova, a tal proposito, citare alcuni tra gli innumerevoli, seppur meno consueti, esempi offerti dalla pratica dei contesti aziendali. In particolare, si riscontra un discreto utilizzo delle polizze assicurative, stipulate nell’interesse dei lavoratori, al fine di garantirli a fronte di eventuali rischi sia in ambito lavorativo che extra-lavorativo (assicurazioni sanitare in particolare).
Orbene, occorre sottolineare come, per consolidato orientamento giurisprudenziale e a norma dell’art. 9-bis, legge n. 166/1991, siano interamente assoggettabili a tassazione e contribuzione gli importi versati per il finanziamento di dette polizze, eccezion fatta per le forme assicurative previste esplicitamente all’interno dei contratti collettivi di lavoro, ovvero da accordi e regolamenti aziendali (si legga, in questo senso, Cassazione, sentenza n. 5004/1992, nonché Cassazione, sentenza n. 11682/1995). Allo stesso modo, può concedersi un prestito a tassi agevolati, da parte dell’azienda, allorquando il lavoratore versi in situazioni di difficoltà. Tali benefits, pur non rappresentando una forma di retribuzione in natura, vengono talvolta concessi tramite la stipula di veri e propri contratti di mutuo, tuttavia non rappresenta circostanza inusuale la corresponsione di sussidi per la formazione scolastica del dipendente, ovvero dei familiari.
In ogni caso, costituisce base imponibile la differenza tra il valore del tasso di interesse stabilito a livello legislativo e il tasso applicato nella fattispecie concreta dal datore di lavoro che, in buona parte dei casi, è del tutto insussistente. Per di più, la Cassazione si è recentemente spinta sino all’individuazione di un fringe benefit nella concessione di una riduzione tariffaria sul consumo di energia elettrica, praticata da una nota società ai propri dipendenti, in quanto integrante “un vantaggio accessorio rispetto alla normale retribuzione” (Cassazione, sentenza n. 586/2017). In tale circostanza, la Corte ha altresì affermato come la natura di fringe benefit debba ritenersi sussistente anche ove tale beneficio venga concesso anche ai pensionati della stessa società.
Quanto ai buoni pasto, il cui utilizzo ha visto registrare una crescita esponenziale negli ultimi anni, occorre rilevare come non costituiscano, ai sensi della legge n. 190/2014 fringe benefits tassabili e soggetti a contribuzione sino al valore di euro 5,29 (euro 7,00 se erogati tramite tickets elettronici). Peraltro, con l’assai recente Decreto del Ministero dello sviluppo economico n. 122/2017, si è inteso ampliarne la fruizione, anche permettendone la cumulabilità. Con ciò va rilevato come, al netto di possibili pratiche elusive, gli stessi rappresentino un’opportunità rilevante per le aziende, in quanto costi totalmente deducibili. L’Agenzia delle Entrate, con la risoluzione n. 26/E/2010, tuttavia, è intervenuta a chiarire la non assorbibilità dell’importo eccedente gli euro 5,29 nella generale franchigia di euro 258,23. Infine, va rilevato come la Suprema Corte, con sentenza n. 16129/2001, abbia negato al servizio mensa (cui i buoni pasto vengono spesso ricompresi) la natura retributiva, affermandone, per converso, la qualifica di benefici “assistenziali”.