Con la sentenza n. 23692 del 10 ottobre 2017, la Suprema Corte di Cassazione, sezione Lavoro, è intervenuta a negare la sussistenza, in caso di esperimento del tentativo di conciliazione, di effetti interruttivi dello stesso con riferimento al termine di prescrizione per l’impugnazione del licenziamento.

Ai fini dell’approfondimento della tematica di sui sopra, occorre preliminarmente osservare come a venire in rilievo, in caso di recesso da parte del datore di lavoro, siano sia termini di decadenza che di prescrizione. In linea generale, può notarsi come ambedue gli istituti concorrano ad assicurare certezza e stabilità ai rapporti giuridici, ivi compreso il rapporto di lavoro, comportando effetti di tipo sostanzialmente estintivo del diritto che si intende far valere.

Nella difficoltà di fornire un’efficace distinzione concettuale tra le due fattispecie, si è da tempo argomentato, in giurisprudenza, come la prescrizione dipenda da un’inerzia del titolare del diritto, mentre la decadenza sia configurabile come la mancanza di un determinato “atto-contegno” indispensabile all’esercizio del diritto. Più propriamente, in dottrina taluno parla di decadenza come di un effetto preclusivo nei confronti dell’acquisto di un diritto, intendendosi, invece, per “prescrizione” il termine decorso il quale un diritto già acquisito si estingue.

Ad ogni modo, l’aspetto che in questa sede giova richiamare riguarda l’applicabilità degli istituti dell’interruzione e della sospensione e a tal riguardo si evidenzia che, se la possibilità di interrompere o sospendere il termine di prescrizione risulta pacifica (nelle tassative ipotesi previste dal legislatore) non può dirsi lo stesso con riferimento alla decadenza, giacché per tale istituto non sono previste ipotesi né di interruzione né di sospensione, risultando irrilevanti le cause che abbiano determinato lo spirare del relativo termine

La sentenza n. 23692/2017: il caso e la soluzione della Corte Suprema

La sentenza n. 23692/2017 si segnala per aver ribadito il precedente orientamento giurisprudenziale pressoché unanime, che, in tema di impugnazione del licenziamento illegittimo comminato anteriormente alla Legge n. 183/2010, aveva ritenuto il tentativo di conciliazione ex art. 410 c.p.c. inidoneo ad interrompere il termine di prescrizione quinquennale previsto, ex art. 1442 c.c., per l’instaurazione dell’azione giudiziale di annullamento del licenziamento illegittimo.

Occorre premettere che, in base al regime antecedente all’entrata in vigore della Legge n. 183/2010, una volta osservato il termine di decadenza di sessanta giorni entro cui impugnare in via stragiudiziale il licenziamento (art. 6 della Legge n. 604/1966), la successiva azione giudiziale di annullamento del licenziamento illegittimo poteva essere proposta entro il termine quinquennale di prescrizione ex art. 1442 c.c., decorrente dalla comunicazione del recesso.

Ebbene, con la sentenza in oggetto la Suprema Corte si è pronunciata in merito alla legittimità di un licenziamento disciplinare comminato nell’anno 2001, anteriormente, quindi, all’entrata in vigore della Legge n. 183/2010. Nel caso di specie il lavoratore aveva depositato ricorso giudiziale avverso tale licenziamento nell’anno 2009, ed il ricorso veniva respinto nel primo grado di giudizio, proprio in ragione della intervenuta prescrizione dell’azione. Promossa la impugnazione avverso la sentenza del Giudice di prime cure, anche la Corte di Appello adita, condividendo l’iter motivazionale del giudice di prime cure, concludeva nel senso della prescrizione del diritto azionato dal ricorrente, atteso che era ampiamente decorso il termine quinquennale per la proposizione dell’azione di annullamento di cui all’art. 1442 c.c.. La corte d’Appello evidenziava altresì il fatto che il ciato termine sarebbe stato suscettibile di interruzione solo per effetto della proposizione di idonea azione giudiziale.

Anche avverso la sentenza di secondo grado il lavoratore proponeva   gravame. Con il  ricorso per cassazione, quindi, il ricorrente, a sostegno delle sue pretese  adduceva  in primo luogo l’inapplicabilità alla fattispecie del termine prescrizionale quinquennale ex art.  1422 c.c., posto che, secondo la prospettazione della sua difesa, era stata chiesta la dichiarazione di nullità del licenziamento e che la relativa  azione sarebbe stata, pertanto, imprescrittibile. In secondo luogo, il lavoratore eccepiva, la tempestività del ricorso giudiziale, attesa l’interruzione, a suo dire, del termine prescrizionale avvenuta con la presentazione di istanza di tentativo di conciliazione ex art. 410 c.p.c. comma 2. Infine, il ricorrente deduceva l’interruzione del termine di prescrizione ex art. 2944 c.c. in virtù del fatto che la società nell’anno 2002 aveva trasmesso allo stesso una comunicazione, nell’ambito della procedura obbligatoria di conciliazione, con cui dava atto delle sue pretese.

La Suprema Corte di Cassazione, con la sentenza in commento, disattendendo le censure mosse dal ricorrente, ha rilevato che l’azione volta ad impugnare il licenziamento illegittimo è diretta a far valere un vizio di annullabilità (assenza di giusta causa o di giustificato motivo oggettivo o soggettivo), e che, pertanto, il termine di prescrizione applicabile alla fattispecie è quello quinquennale di cui all’art. 1442 c.c.. Termine la cui decorrenza determina, come giudicato dalla Suprema Corte, al pari della decadenza dall’impugnativa del licenziamento, l’estinzione del diritto di far accertare l’illegittimità del recesso datoriale e di azionare le conseguenti pretese risarcitorie. Ciò, ferma la tutela di diritto comune a favore del lavoratore, al fine di far valere un danno diverso da quello previsto dalla normativa speciale sui licenziamenti, come quello derivante da licenziamento ingiurioso.

La conclusione cui è pervenuta la Corte Suprema con la sentenza in oggetto è che in tema di licenziamento per giusta causa o giustificato motivo, una volta osservato il termine di decadenza di 60 giorni, sancito dalla l. n. 604/1966, art. 6,  entro cui proporre impugnazione stragiudiziale del licenziamento, “ … la successiva azione giudiziale di annullamento del licenziamento illegittimo può essere proposta nel termine quinquennale di prescrizione di cui all’art 1442 c.c., decorrente dalla comunicazione del recesso, senza che tale termine possa restare interrotto dal compimento di una diversa attività, quale l’istanza per il tentativo di conciliazione stragiudiziale”.

Le motivazioni della Corte Suprema. Natura giuridica dell’azione di annullamento del licenziamento come azione costitutiva e diritti potestativi

La conclusione a cui è pervenuta la Corte Suprema con la sentenza n. 23692/17 in commento, muove dalla considerazione della natura giuridica dell’azione di annullamento del licenziamento quale azione costitutiva ex art. 2908 c.c., ossia azione volta a costituire, modificare o estinguere rapporti giuridici.

Al riguardo, si evidenzia che in passato si è registrata una contrapposizione in dottrina e in giurisprudenza circa la natura dichiarativa o costitutiva dell’azione di impugnazione del licenziamento, e ciò nell’ambito della tutela reintegratoria.

Secondo una prima tesi tale azione doveva essere inquadrata nell’ambito della tutela di accertamento, non costitutiva.

Come noto, in ambito processualcivilistico le azioni di accertamento o dichiarative sono quelle azioni per le quali il giudice si limita ad accertare l’esistenza o l’inesistenza di un diritto, senza prendere un altro tipo di provvedimento, in quanto il fine dell’attore è una sentenza, appunto, di mero accertamento.

Secondo la prima tesi, dunque, l’azione di impugnazione del licenziamento avrebbe dovuto essere inquadrata nell’ambito della tutela di accertamento, in quanto avente ad oggetto la dichiarazione della persistenza del rapporto lavorativo, nonostante l’esercizio da parte del datore di lavoro del diritto potestativo diretto ad estinguere il rapporto stesso.

Secondo tale tesi, attraverso l’impugnativa, infatti, il lavoratore contestava l’atto ablativo, facendo valere l’attualità, la persistenza e l’efficacia del rapporto di lavoro, domandandone, quindi, la sua conservazione e non la sua costituzione ex novo.

Diversamente, la più recente nonchè maggioritaria giurisprudenza (Cassazione sentenza n. 24675 del 2016; sentenza n. 19665 del 2014; sentenza n. 2414 del 1976; sentenza n. 3713 del 1971) ha affermato, nell’ipotesi in cui spetti la tutela reintegratoria, il carattere costitutivo dell’azione di annullamento del licenziamento privo di giusta causa o di giustificato motivo.

Come è noto l’azione costitutiva ex art. 2908 c.c. è l’azione volta a costituire, modificare o estinguere rapporti giuridici.

Trattasi di azione tipica, che può essere esercitata solo nei casi espressamente previsti dalla legge; ciò per via dell’effetto di tale azione, ossia per la sua idoneità ad incidere nella altrui sfera giuridica, modificandola.

Tale azione costituisce espressione di un diritto potestativo, per tale intendendosi quella situazione di diritto sostanziale che costituisce la massima espressione del potere attribuito al singolo, ossia che consente la possibilità di ottenere la modifica di un rapporto giuridico per effetto della sola volontà di chi esercita tale diritto.

Il diritto potestativo comporta l’irrilevanza di ogni comportamento del soggetto passivo ai fini della realizzazione del diritto che è rimessa alla sola volontà del titolare.

Il diritto potestativo si differenzia infatti dal normale diritto soggettivo (ad es. il diritto di credito), che sul piano sostanziale può attuarsi solo attraverso la collaborazione dell’altro soggetto del rapporto.

Si pensi al diritto di recesso, classico esempio di diritto potestativo, che consente al titolare di svincolarsi da un rapporto giuridico per effetto della sua sola volontà; laddove, invece, un diritto soggettivo, come il diritto di credito, può trovare soddisfazione sul piano sostanziale solo attraverso la cooperazione del debitore.

La Suprema Corte di Cassazione con la citata sentenza, come detto, alla luce della natura costitutiva dell’azione di annullamento del licenziamento illegittimo e dei caratteri del diritto potestativo, ha escluso la possibilità del compimento di atti stragiudiziali interruttivi della prescrizione.

Si precisa in merito che la costituzione in mora del debitore ex art. 2943 comma 4 c.c. è atto idoneo ad interrompere la prescrizione dei soli diritti di credito, pertanto, solo per tali diritti la richiesta di espletamento del tentativo di conciliazione ex art. 410 c.p.c. produce effetti interruttivi.

La Cassazione, facendo applicazione dei suesposti principi, ha pertanto rigettato il ricorso del lavoratore che aveva proposto l’azione giudiziale di annullamento del licenziamento disciplinare solo nell’anno 2009, oltre i cinque anni dall’irrogato licenziamento (avvenuto nell’anno 2001), giudicando che, una volta osservato il termine di cui all’art. 6 l. 604/1966, per l’impugnazione stragiudiziale del licenziamento, l’azione giudiziale di annullamento del licenziamento illegittimo può essere proposta nel termine di prescrizione quinquennale di cui all’art. 1442 c.c., senza che il compimento di una diversa attività, quale l’istanza di tentativo di conciliazione ex art. 410 c.p.c. possa interrompere tale termine.

I precedenti giurisprudenziali in materia e le differenze con l’istituto della decadenza

La predetta pronuncia si pone in assoluta continuità con l’ormai consolidato orientamento giurisprudenziale in materia, che richiede, ai fini dell’interruzione del termine prescrizionale, il perfezionamento dell’azione giudiziale (si vedano, a titolo meramente esemplificativo, Cassazione, sentenza n. 11116 del 2016 e sentenza n. 28428 del 2005). Peraltro, per mezzo della pronuncia n. 18541 del 2008, la Suprema Corte aveva avuto modo di precisare come, al pari dell’esperimento del tentativo di conciliazione, anche qualora il lavoratore provveda entro i termini al deposito del ricorso avverso il provvedimento espulsivo ma, al tempo stesso, non si perfezioni la relativa notifica al datore di lavoro, sussista in ogni caso un’inidoneità di tale ricorso ad interrompere la prescrizione. In altri termini, in virtù della citata sentenza della Suprema Corte sarebbe necessario ai fini interruttivi della prescrizione “che l’atto sia tempestivamente portato a conoscenza del destinatario” e l’instaurazione del contraddittorio possa dirsi compiuta.

Si evidenzia, in merito che l’orientamento giurisprudenziale sopra citato, seppure maggioritario,  non è unanime, parte della giurisprudenza ritiene infatti sufficiente anche ai fini dell’interruzione della prescrizione il solo deposito del ricorso (cfr. Cassaz.10016/2017).

In ogni caso, dall’assunto di cui sopra emerge un ulteriore elemento di differenza con l’istituto della decadenza. Infatti, la stessa Corte di Cassazione, in senso diametralmente contrario a quanto affermato in tema di prescrizione, individua nell’impugnativa stragiudiziale effettuata per posta, quand’anche non ancora pervenuta al datore di lavoro alla scadenza del termine ex art. 6 comma 1 della L. 604/1966, un atto con efficacia impeditiva della decadenza (Cassazione, sentenza n. 8830 del 2010).  Dovrebbe procedersi, a dire della Corte, ad una vera e propria “scissione” concettuale “tra il comportamento impeditivo della decadenza” – corrispondente, nell’ipotesi considerata, all’invio a mezzo postale – “e l’efficacia dell’atto dichiarativo di impugnazione del licenziamento”.  Orbene, in un’opera di bilanciamento tra interessi confliggenti, può ritenersi prevalente, sulla base della sopra citata decisione, quello del lavoratore ad impedire che il relativo diritto di annullamento del recesso risulti precluso dal decorso del termine, anziché un generico interesse del datore a venirne tempestivamente a conoscenza.

L’opportunità di effettuare tale bilanciamento trova, per di più, un’autorevole conferma nella  sentenza n. 28 del 23 gennaio 2004 della Corte costituzionale, per mezzo della quale, esprimendosi con riferimento alla notificazione ex art. 139 c.p.c. e 148 c.p.c., il Giudice delle Leggi  ha ritenuto palesemente lesivo del diritto di difesa del notificante, nonché manifestamente irragionevole, la circostanza in cui “un effetto di decadenza  possa discendere dal ritardo nel compimento di attività” non riferibili allo stesso, bensì “a soggetti diversi”, quali un ufficiale giudiziario ovvero un agente postale (si veda, in questo senso, anche Corte costituzionale, sentenza n. 477 del 2002, sentenza n. 97 del 2004 e sentenza n. 3 del 2010, dello stesso tenore).

Applicabilità dell’interruzione della prescrizione ai diritti di credito derivanti dal rapporto di lavoro

Le riflessioni sin qui condotte e la negazione dell’interruzione del termine prescrizionale riguardano la specifica azione di annullamento del provvedimento espulsivo, dovendosi, per converso, riconoscere tale effetto interruttivo ove il lavoratore intenda far valere un diritto di credito.

Il tenore del comma 2 dell’art. 410 c.p.c., a mente del quale “la comunicazione della richiesta di espletamento del tentativo di conciliazione interrompe la prescrizione e sospende, per la durata del tentativo di conciliazione e per i venti giorni successivi alla sua conclusione, il decorso di ogni termine di decadenza”, dovrebbe infatti intendersi, secondo costante giurisprudenza, limitato ad ipotesi differenti rispetto all’impugnativa del recesso.

Sulla scia di tale consolidato assunto, la Suprema Corte di Cassazione, per mezzo della sentenza 16 gennaio 2014, n. 801, nel fornire, da un lato, la propria interpretazione relativa alle differenze di ratio tra l’istituto della prescrizione e della decadenza (la prima troverebbe ragione, come precedentemente affermato, “nella presunzione di abbandono di un diritto per inerzia del titolare”, mentre il fondamento della decadenza risiederebbe “nell’esigenza obiettiva del compimento di particolari atti entro un termine perentorio stabilito dalla legge”), dall’altro ha ammesso la sussistenza dei presupposti per l’interruzione del termine prescrizionale con riferimento a crediti retributivi. Nel caso oggetto della pronuncia citata, infatti, il ricorrente aveva fatto valere la pretesa relativa alla corresponsione in proprio favore delle differenze retributive, dovute a titolo di compenso per le ore di lavoro straordinario prestate. Il Supremo Collegio ha negato, nel caso di specie, il verificarsi dell’effetto interruttivo, ma esclusivamente per il mancato assolvimento della prova relativa alla comunicazione dell’istanza per l’esperimento della procedura conciliativa alla società datrice di lavoro. A tal proposito, la Corte ha avuto modo di riaffermare il principio secondo cui, a differenza dell’ipotesi della sospensione della decadenza per l’impugnativa (per la quale, va ribadito, è “irrilevante, in quanto estraneo alla sfera di controllo del lavoratore, il momento in cui l’ufficio provvede a comunicare al datore di lavoro la convocazione per il tentativo di conciliazione”), l’interruzione della prescrizione per diritti di credito, con effetto permanente fino al termine di venti giorni successivi la conclusione della procedura, si verifica solo con la comunicazione della richiesta al datore (in tal senso, la Corte si è conformata  alle precedenti pronunce: Cassazione, sentenza n. 27882 del 2008 e sentenza n. 6336 del 2009).

Allo stesso modo, la giurisprudenza di legittimità ha, in altra circostanza, osservato come l’effetto interruttivo debba riconoscersi anche nel caso in cui l’esperimento del tentativo di conciliazione riguardi l’ipotesi del risarcimento del danno subito in occasione di un infortunio sul lavoro (Cassazione, sentenza n. 16452 del 2013), per violazione, da parte del datore, dell’obbligo, di cui all’art. 2087, di dotarsi di misure necessarie “a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”.

Le novità in tema di decadenza e definitivo abbandono dell’istituto della prescrizione quinquennale in tema di impugnazione del licenziamento. La legge n. 183/2010 e la legge n. 92/2012 

Le riflessioni sin qui condotte, riguardanti il tema della prescrizione quinquennale e della relativa possibilità di interruzione, vengono in rilievo esclusivamente ove il licenziamento da impugnare preceda l’approvazione della L. 183/2010. Si è, infatti, registrato, nel frattempo, un intervento legislativo atto a rideterminare le tempistiche per l’impugnazione avverso il recesso datoriale.

In particolare, dapprima la Legge 4 novembre 2010, n. 183 (Collegato lavoro), nel mantenere sostanzialmente invariato il termine di decadenza ex art. 6 comma 1 della L. 604/1966 di sessanta giorni dal ricevimento della comunicazione per l’impugnazione (stragiudiziale) del licenziamento, ha introdotto, all’art. 32, un secondo termine di duecentosettanta giorni dalla stessa per il “deposito del ricorso nella cancelleria del tribunale in funzione di giudice del lavoro” o la “comunicazione alla controparte della richiesta di tentativo di conciliazione o arbitrato” (in quest’ultima ipotesi, il ricorso deve tassativamente essere depositato nei sessanta giorni successivi il mancato accordo ovvero il rifiuto del datore). Due anni più tardi, intervenendo nuovamente sul punto, la Legge 28 giugno 2012, n. 92 recante “Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita”, ha provveduto a ridurre ulteriormente il secondo termine di decadenza portandolo da duecentosettanta a centottanta giorni (art. 1, commi 38 e 39) e rendendolo applicabile con riferimento ai licenziamenti intimati in seguito alla data del 18 luglio 2012.

Con l’approvazione delle leggi suddette, il legislatore parrebbe aver inteso porre al riparo il datore di lavoro dal rischio di un’azione giudiziale di annullamento del recesso comminato sino a cinque anni prima, garantendo, quindi, per mezzo di due termini connessi e successivi, maggiore certezza nelle tempistiche dell’impugnativa. In altri termini, ad essere tutelato è l’interesse del datore a non subire una prolungata sospensione del rapporto giuridico pendente con il lavoratore e a scongiurare l’altrimenti inevitabile insicurezza sulla stabilità del provvedimento adottato.

CONTRIBUTO PUBBLICATO SU DIRITTO & PRATICA DEL LAVORO DI IPSOA